SALVATORE DR DAVI’


Note Biografiche


Salvatore Davì è nato il 29 gennaio 1924 a Borgetto, antico borgo all'ombra del Romitello, località amen alle porte di Palermo. Conseguita la maturità scientifica, ha studiato medicina e chirurgia all'università di Palermo e il 15 luglio 1949 si è laureato col massimo dei voti e la lode, discutendo brillantemente una tesi sperimentale di farmacologia. Nel1952 ha conseguito la specializzazione in radiologia medica e radioterapia, e nel1969 quella in igiene e medicina preventiva, quando aveva già assunto la condotta medica del comune di Borgetto.

Il 31 dicembre 1955 contrasse matrimonio con l'insegnante Iole Scinia, donna di viva intelligenza e profonda cultura, vera pioniera nell' arte della drammatizzazione nelle scuole elementari. Da lei ha avuto tre figli, brillantemente avviati nella professione medica.

Ritiratosi dalla professione, si è dedicato agli studi classici e storici, impegnandosi in particolare nelle ricerche sulla permanenza di Teofilo Folengo alle Ciambre di Borgetto.

Muore a Borgetto il _________.

A riconoscenza della sua opera sia di medico condotto, che ha fatto con grande impegno, sia di studioso, il Comune di Borgetto gli ha intitolato il Poliambulatorio.

OPERE

Nel Marzo del 2000 il nostro Autore pubblica la sua opera dal titolo “ Teofilo Folengo - alle Ciambre di Borgetto” , che – come dice lo stesso autore nel Prologo – vuole essere un tentativo di dare un contributo di studio e di discussione su una figura originale e significativa del Rinascimento letterario italiano, Teofilo Folengo.


Riportiamo di seguito la “Presentazione” del libro del nostro autore da parte dell’Abate di San Martino delle Scale, Ildebrando Scicolone. 

“Quando, nel 1971, quinto centenario della morte di fra Giuliano Mayali, conosciuto come il Romitello, mi sono occupato del monastero delle Ciambre, non pensavo di doverci ritornare per l' altro monaco che, a suo modo, 10 rende famoso ad un piu vasto pubblico.

E stato un convegno', tenutosi nel 1997, a riportarmi alle Ciambre, che, per _un certo periodo e stata una alternativa al monastero di S. Benedetto di Borgetto, ambedue dipendenti dal1'abbazia di S. Martino delle Scale. Il convegno in questione riguarda D. Teofi10 Folengo, che, professo dell a abbazia di Santa Eufemia di Brescia, ha trascorso un periodo della sua vita alle Ciambre, dove ha composto alcune delle sue opere. Del monatero delle Ciambre non rimangono che rovine; e forse piu importante l' epigramma che il Folengo dedi co alluogo,prima di lasciarlo, per ritornare nelle sue terre padane.

Quel convegno, svoltosi a Partinico e non a Borgetto, ha giustamente suscitato qualche risentimento nei cultori della storia patria della citta di Salvatore Salomone Marino. Ma ha anche fatto riemergere nella coscienza del dott. Salvatore Davì la memoria di un manoscritto, trovato in una stanza buia, che potrebbe essere una delle opere del Folengo di cui si conosce solo il nome. Purtroppo questo manoscritto, dopo piu di cinquant'anni, e dato per disperso dallo stesso Dav!. Ma e nato in lui anche il desiderio di far conoscere ai suoi concittadini questa gloria patria.

Due sono dunque le motivazioni profonde della incipiente ricerca dell'autore. La prima è data dall'epigramma sulle Ciambre: nessuno può interpretare il testo meglio di uno che conosce, per averli calcati più volte nel corso degli anni, i luoghi cantati, quasi a condurci per mano a toccare le rupi, gli antri, i boschi, le sorgenti, di cui parla il poeta. La seconda è data dalla memoria del manoscritto scomparso, e dal desiderio di coinvolgere altri studiosi, locali e non, nella ricerca di quanto possa trovarsi, per fare maggior luce sul periodo siciliano del poeta maccheronico.

Auguro al dottor Davl, di cui ho apprezzato la grande passione che mette in questi studi, pieno successo al suo amore (<<studium» significa anche «amore») per Folengo e per Borgetto.

Eventuali risultati positivi sarebbero certamente un contributo non indifferente alla conoscenza del Folengo e quindi alla letteratura italiana. Gli auguro anche di contribuire ad innamorare i giovani alla ricerca delle patrie glorie passate per emularle nel presente.”

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Riteniamo opportuno, per consentire ai lettori di avere dell’opera del nostro Autore contezza del percorso attraverso il quale l’opera venne ideata e si è sviluppata, trascrivere di seguito l’intero Prologo che l’autore ritiene utile indicare come necessario“.

“Prologo ”

Questo breve saggio non è motivato da velleità letterarie: l' autore non appartiene alla categoria degli scrittori di mestiere, bensì all'ordine dei medici; e vuole fare semplicemente un tentativo di dare - forse inaspettato, a distanza di secoli - un contributo di studio o di discussione su una figura originale e significativa del Rinascimento letterario italiano: Teofilo Folengo, «forse il più grande artista dell'uso della parola», che visse uno dei periodi più tormentati della storia italica, civile e religiosa, sfociato nella Riforma protestante e nella Controriforma cattolica.

Non si tratta di un pretenzioso contributo critico-letterario sull'opera del poeta, ma di una semplice testimonianza, che può tuttavia aprire una nuova prospettiva suI periodo siciliano della vita dell'irrequieto padre benedettino mantovano, padre, soprattutto, della lingua «macaronica». Periodo - occorre precisare - non ancora esaurientemente indagato dagli storici della letteratura, tra le vaste zone d’ombra che punteggiano la sua vita. La testimonianza si riferisce al fortuito rinvenimento di un volumetto manoscritto, tarlato dal tempo e dalle intemperie, tra una catasta di altri volumi e incartamenti, ammucchiati alla rinfusa in un laido tugurio annesso alla chiesa madre di Borgetto, in provincia di Palermo, che il sottoscritto giovinetto amava frequentare, attratto da tutto ciò che ha sapore d' antico.

Correva 1'anno 1934 ed io, seminarista decenne, incuriosito dalla scoperta del ripostiglio, chiesi al buon parroco Francesco Battaglia di poter liberamente rovistare. La mia attenzione, quasi subito, venne calamitata da un opuscolo foderato in cartapecora, formato tascabile, intestato a Teofilo Folengo. Era scritto a mano, in una strana lingua, che mi dissero poi chiamarsi macaronica, e stentai a capirne qualcosa, anche se traspariva un certo sentore di satira. Con la noncuranza tipica della prima adolescenza, lo misi in saccoccia e poi tra le mie carte di scuola. Dove, purtroppo, fu dimenticato.

Tanti anni dopo, quando me ne ricordai, nella ricerca non fui più assistito dalla fortuna, ma l' argomento delle opere folenghiane perdute non ha più cessato di bussare alla mia attenzione, per poter sollevare finalmente le pesanti coltri di silenzio che hanno ricoperto per secoli momenti e aspetti particolari, forse essenziali, comunque interessanti, dell' esperienza palermitana del poeta.

Ho avuto modo di parlarne in varie occasioni con noti critici e cultori del Rinascimento letterario italiano e ultimamente a Padova, il 30 settembre 1999, col professor Giuseppe Billanovich, purtroppo scomparso nel febbraio 2000. Egli era uno dei più autorevoli biografi e interpreti di Folengo, autore di numerosi saggi sulla sua opera poetica e sulla letteratura dei secoli XV e XVI, saggi pregevoli anche per la semplicità della scrittura, accessibile a tutti, pure al lettore casuale, senza pretenziosi e inutili orpelli marcati dalla più vieta retorica, secondo l'insegnamento dello stesso Folengo, che «dipingeva le cose con le stesse cose» (parola di Francesco De Sanctis: si veda la lettera scritta da Lugano, dove insegnava, a un amico italiano).

Parlammo anzitutto dei motivi che determinarono il trasferimento di Teofilo Folengo in Sicilia, nella piccola abbazia allora esistente alle Ciambre, sopra Borgetto, nel circondario di Palermo, dopo una breve permanenza a Monreale, nella grandiosa casa madre di San Martino delle Scale. Nulla di particolare o di nuovo su quel trasferimento, per così dire, cautelare, favorito dal signore di Mantova Federico Gonzaga, intervenuto presso il figlio Ferrante, capitano d'armi al servizio dell'imperatore Carlo V, che al ritorno dalla guerra vittoriosa contro Tunisi lo aveva nominato vicerè di Sicilia. Federico e Paola Folengo, genitori dell'irrequieto benedettino, ne avevano raccomandato l'allontanamento dalla sede veneta, addirittura per timore che il figlio potesse finire sotto inquisizione per sospetto di eresia (per il suo spirito contestatario suI piano etico-religioso e sociale), se non per condotta peccaminosa, o comunque per sottrarlo al pericolo di vendette private (questioni di donne?).

Nel rifugio delle Ciambre, dove visse ininterrottamente per buoni cinque anni, dal 1538 al 1543, com'e noto, egli scrisse la Palermitana, poema religioso in terza rima, composto di trentotto canti in due libri, ispirato a episodi della storia sacra sino all' avvento di Cristo redentore; scrisse pure il notissimo Atto della Pinta, ossia La creazione del mondo, sacra rappresentazione dedicata alla chiesa palermitana di Santa Maria della Pinta; e l' Hagiomachia, narrazione in esametri latini della vita di ventuno santi martiri, rimasta incompiuta. Scritti religiosi e versi latini che non portarono il poeta a rinnegare le opere «maccheroniche», ma costituirono una specie di parentesi meditativa nell'attività creativa. Infatti durante la permanenza siciliana il Folengo non smise di mettere a punto le Maccheronee e abbozzò anche due opere minori di cui conosciamo il titolo: Vita e qualità di Nemo, in prosa, e Le Graticce, composizione satirico-umoristica, secondo il più consumato stile folenghiano.

A questo punto, si può rilevare in una specie di consecutio logica: il prof. Giuseppe Billanovich, nel libro “Tra don Teofilo Folengo e Merlin Cocaio” (edizione Pironti, 1948, pag. 82, rigo 9°), parla di satire come quelle scritte da Ludovico Ariosto contro i suoi «padroni», satire su cui proseguì le ricerche Carlo Cordiè, indicandone anche il titolo nella sua introduzione al testo di letteratura italiana di Pancrazi, Mattioli e Schiaffini, edito nel 1978 da Riccardo Ricciardi: Le Graticce; non sappiamo su quali indizi, in mancanza di precise indicazioni o fonti, il Cordiè abbia appuntato la sua attenzione o fondato la sua ipotesi, certo è che il Billanovich parla di satire andate perdute; io ragazzo, nel 1934, trovo quel pamphlet satirico intestato a Teofilo Folengo; il Cordiè accenna alle Graticce... Quali conclusioni possiamo trame?

Ricordo lo sguardo penetrante di maestro Billanovich, mentre ascoltava con evidente curiosità le mie argomentazioni, assentendo con una espressiva mimica facciale: «Possibile, possibile,» mi disse, «il ragionamento fila.»

Ci siamo trovati anche d' accordo sul probabile percorso seguito da quei volumi e incartamenti per finire in un oscuro ripostiglio della madrice di Borgetto, al momento delI' abbandono della piccola abbazia ciambrina da parte dei frati. Sicchè i volumi furono lasciati ad ammuffire.

Col prof. Billanovich abbiamo anche concordato nel considerare il Folengo uomo con tutte le sue debolezze, più una: quella di considerare la donna, secondo certi canoni dell' ascetica classica, «remedium concupiscentiae», come del resto si addiceva a un estroso poeta rinascimentale in veste di asceta. Senza considerare precedenti accuse d' altro genere, poi lasciate cadere, come quella di reus repetundarum. Basti ricordare indicativamente il chiacchierato episodio di Gerolama Dieda, moglie del mercante Gerolamo Mercatelli, passata alla storia in un gustoso acrostico, nel Caos del Triperuno, di cui però non si ha più traccia dopo la lunga permanenza dell' opera all' lndice inquisitorio.

Qui ricordiamo, per inciso, che il poeta mantovano, dopo aver lasciato le Ciambre nel 1543, visse meno di un anno, ospitato nell'abbazia di Campese a Bassano del Grappa, su consiglio del fratello Giambattista che ne era stato priore, periodo in cui si dedicò precipuamente alla rifinitura dei suoi capolavori, tralasciando però le due opere minori: Vita e qualità di Nemo e 1e Graticce, scritte entrambe alle Ciambre ma involontariamente qui abbandonate, ancora allo stato di manoscritto, al momento della sua fuga imprevista (cogor abire), non avendo trovato riparo nel suo modesto bagaglio limitato ad una vecchia bisaccia.

Questi manoscritti, insieme agli altri volumi della biblioteca del cenobio, trovarono poi asilo tra le mura della sacrestia della chiesa madre di Borgetto, al momento del definitivo abbandono dell'abbazia, intorno al 1750, come scrive anche lo storico-etnologo borgettano Salvatore Salomone Marino, nelle Effemeridi siciliane. Asilo, dunque, provvisorio, in attesa di migliore sistemazione; cosa mai avvenuta fino al 1934.

E dunque le Graticce potevano essere quel manoscritto autografo oppure si trattava di un manoscritto apocrifo?

Vorremmo così lanciare un messaggio agli studiosi e a tutti gli appassionati della materia, affinché si reiterino e si approfondiscano le ricerche in punti inesplorati.

Ci domandiamo ancora perchè mai nessuno abbia voluto indagare, o semplicemente curiosare, sul lungo periodo siciliano del Folengo, tanto felice e produttivo. Vien fatto di pensare che la maggior parte degli studiosi lo abbia ritenuto trascurabile, mentre sappiamo per certo che proprio alle Ciambre il poeta lavorò alacremente un po' a tutti i testi della sua produzione letteraria e li rielaborò dalla “Palermitana” all' “Atto della Pinta”, dall' “Hagiomachia” alle “Maccheronee”, per arrivare - ripetiamo - alIa “Vita e qualità di Nemo” e infine alle “Graticce”.

Certo le satire dovevano avere un carattere o un indirizzo diverso da quelle dell' Ariosto, il quale le rivolgeva a suoi padroni di Ferrara, mentre il Folengo non poteva rivolgerle ai signori di Mantova, per il semplice motivo che essi, oltre ad avere con lui legami di parentela e di amicizia, lo avevano in vario modo protetto e più volte messo al riparo da ostilità di vario genere, comprese quelle provenienti dalla cupola della stessa congregazione benedettina cassinese, non sempre consenziente alle estrosità imprevedibili del poeta.

Non dimentichiamo che furono i Gonzaga a combinare il trasferimento in Sicilia, che poteva avere l'amaro sapore dell' esilio e, invece, per la scelta dei luoghi - prima la grandiosa abbazia di San Martino delle Scale e poi la piccola deliziosa dimora di Santa Maria delle Ciambre - rappresentò un suggestivo soggiorno tra verdi boschi di querce e di pioppi, ricchi di sorgenti cristalline, da cui trarre benessere e ispirazione artistica. Insomma, quasi un piccolo Eden.

Lo rileviamo in particolare nell'Addio alle Ciambre, dove alle note idilliache sui luoghi che gli diedero lungo e gradevole asilo segue il rammarico, il rimpianto di doverli improvvisamente (diciamo meglio, frettolosamente) lasciare, quasi sotto l'incubo di minacciosi «avvertimenti» d'indubbia matrice sociale. Gli avvertimenti, cosiddetti, per motivi d' onore hanno radici antiche.

A riprova, ricordiamo quanto si dice testualmente nella nota introduttiva alla Letteratura ltaliana di Mattioli, Pancrazi e Schiaffini: «A Santa Maria delle Ciambre la penna alacre del Folengo riprendeva infaticabile», citando sia pure come «mera nominanza» le opere che abbiamo gia richiamato, comprese la Vita e qualita di Nemo e le Graticce, opere - sottolineiamo ancora una volta - perdute.

Forse, col preciso intento di fare più luce su questo punto, una paziente ricerca d' archivio nella ricca biblioteca dell'abbazia di San Martino delle Scale (e, chissa, anche negli Archivi di Stato e fra le inesplorate casse della Biblioteca Regionale - ex Nazionale - di Palermo, provenienti dalla stessa abbazia benedettina al tempo dello scioglimento delle congregazioni religiose dopo la proclamazione del Regno d'Italia) potrebbe riservare qualche sorpresa.

Un curioso reperto che suscita interesse può essere la copia di una lettera minatoria rinvenuta in quello stesso ripostiglio della madrice di Borgetto, che recita: «Non rivedrò mai più tuo figlio se non appoggi in Senato la proposta di far rialzare nel foro l' ara della vittoria e se non fai confermar dall'Imperatore l' annuo censo che l' erario paga ai sacrificatori. Una sola parola che tu dica di questo foglio e Cecilio sarà ucciso.» E il copista aggiunge: «Gran Dio! Chi ti consegno questo?» Si tratta di un rotolo pergamenaceo mane scritto da un originale del IV secolo dopo Cristo, riferibile al tempo di Teodosio I il Grande, e al suo editto contro i culti pagani, per cui avversari politici avrebbero minacciato d morte il giovane Cecilio, figlio di un console cristiano. Ci permettiamo, pertanto, di richiamare l' attenzione degli specialisti della materia, come G. Bernardi Perini, Otello Fabris, C. F. Goffis, Rodolfo Signorini, mons. Ildebrando Scicolone, personaggio di spicco della congregazione benedettina cassinese, uomo di profonda cultura religiosa I umanistica. E non dimentichiamo l'ex arciprete di Campese, don Gino Ziliotto, del quale è nota la costante attenzione alle cose del Folengo, anche come custode della sua tomba.

Vogliamo significare che il soggiorno di Teofilo Folengo alle Ciambre di Borgetto ha fatto anche da ottima medicina al poeta, tanto da permettergli di applicarsi intensamente e serenamente all'ultima versione delle Maccheronee, la Vigaso Cocaio, il cui testo, al ritorno a Campese, nel 1543, affidò al fratello Giambattista, che lo consegnò al nuovo editore, il Varisco, oriundo siciliano trapiantato nella città lagunare, che aveva lavorato come apprendista nella stamperia Paganini e ne aveva racco1to la successione.



Commenti sul Saggio “Teofilo Fiolengo alle Ciambre di Borgetto”

Ho avuto modo di conoscere un personaggio non comune, un uomo dall'aspetto rapisardesco e con un sottile humour, che si accentua quando cerca di scavare nel passato. E il medico Salvatore Dav!, originario di Borgetto.

Cresciuto in questo piccolo borgo, da ragazzino ha frequentato la chiesa parrocchiale della piccola comunità, dove erano custoditi anche i polverosi ma pregevoli libri del monastero benedettino delle Ciambre, comprese le opere del grande umanista Teofilo Folengo. E fu in una di queste opere che si imbatte il ragazzino Davì... A ricordo di questo fatto, il Dav!, attraverso ricerche non facili, ha elaborato un prezioso saggio suI soggiorno di Teofilo Folengo alle Ciambre di Borgetto.

Roberto Calia

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Dopo mezzo millennio, Salvatore Davì e venuto a scoperchiare virtualmente la tomba del Folengo, mettendone in luce l'aspetto umano, oltre che la preziosità dell'opera, decodificandone pure il mistero della fuga dalle Ciambre... Con questo lavoro egli ha fatto ammenda dell'altrui colpevole dimenticanza, per vivificarne il ricordo.

Salvatore Bonni

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La fatica letteraria di Salvatore Davì, nella ricerca di notizie e particolari sui soggiorno di Teofilo Folengo alle Ciambre di Borgetto, dimostra la sua ferma volontà di contribuire alla divulgazione di valori culturali che appartengono alla storia del passato, ma che l'incuria e J'indifferenza di molti hanno sepolto nell' oblio.

Si evidenzia anche, nel contesto del lavoro, il cruccio dell'autore per lo smarrimento di un manoscritto trovato negli anni '30 in un locale abbandonato. L' autore, col senno del poi, riconoscerebbe in questo libretto le famose Graticce, una delle due opere minori, non date alle stampe, con la quale si esaurisce la produzione letteraria del Folengo.

Giuseppe Barba

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Una ricerca sull'uomo, prima che sul poeta, e sul poeta in quanto uomo, in un contesto di forte cultura antropologica fra la rivisitazione del personaggio e la condivisione di tutto, persino delle debolezze del Folengo, in qualche caso taciute dalle istituzioni della cultura. Un approccio vero, dunque, appassionato, che colpisce per la forte attenzione (e attrazione) dell'autore per questo personaggio venuto dalla lontana Mantova a soggiornare felicemente in Sicilia, ispirato ad opere che sono rimaste nella storia della cultura italiana e non sol tanto italiana.

Giovanni lsgro